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parte 1 | The Phantom Sportscar

La storia completa della rivoluzionaria sportiva vecchia scuola a cui non fu mai data una possibilità

 

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di Luca Sciarrillo


Uno dei passatempi preferiti di ogni appassionato di auto è sognare ad occhi aperti.

D’altronde, sognare non costa nulla.


Da appassionato, mi è capitato spesso di vagare con la mente tra epoche distanti e regioni remote, immaginando auto mai nate, ferme a uno stato embrionale, iniziate in un piccolo stabilimento da un manipolo di uomini e mai portate a produzione.


Non sono solo gli appassionati squattrinati a sognare… Ogni tanto un piccolo imprenditore decide di tuffarsi nel mondo dei costruttori di auto, fiero della sua idea e speranzoso che gli altri la capiscano e la apprezzino.


Immagine originale di @YI450 Photography

 

L'articolo e i marchi mostrati nelle seguenti immagini non hanno fini commerciali.


 

tomita auto co ltd tomitaauto トミタオート



Il terreno più fertile in cui piantare il seme di una nuova auto avendo a disposizione poche risorse è sicuramente quello delle auto sportive: le auto pensate per gli appassionati di auto.


Cinquant’anni fa la sportivetta era ancora un’auto di nicchia; non doveva rispondere a requisiti particolari se non ad andare forte - non fortissimo, essere divertente da portare ed essere abbastanza utilizzabile su strada, cioè non doveva cadere a pezzi tutta in una volta.


Andando avanti con i decenni, con le norme sulla sicurezza, con le restrizioni sulle emissioni, con l’avanzamento tecnologico a supporto di prestazioni molto maggiori, anche la sportivetta a basso costo è diventata un’auto complessa quanto tutte le altre, con mille cablaggi, nuove comodità e un discreto comfort di guida.


Insomma, da un paio di decenni a questa parte è diventato impossibile riuscire a vendere o addirittura omologare una sportiva se non si hanno grossi investimenti alle spalle, e i soldi non bastano nemmeno per garantire il successo del modello, dato che di tutte le sportivette a buon mercato degli ultimi tre decenni sono sopravvissute giusto la Miata e la Elise.




 

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Essendosi chiuse le porte del mercato delle sportivette di grande tiratura, i piccoli costruttori, chi prima e chi dopo, chi per ambizione e chi per necessità, hanno rivolto il loro sguardo verso un segmento simile, ma le cui caratteristiche e la cui esclusività permettevano ancora la produzione artigianale o semi-artigianale: le supercar.


La supercar è “per definizione” un’auto caratterizzata un forte concetto di base e da un design inconfondibile. Una supercar dev’essere prima di tutto esotica, deve sorprendere, deve essere mai banale. Le prestazioni mozzafiato, poi, sono la ciliegina sulla torta.


Mentre in Europa le supercar vedevano le proprie prestazioni sempre più “imborghesite”, adagiandosi sul fascino donatogli dalle matite dei carrozzieri più famosi al mondo, in Giappone le anonime sportive da usare tutti i giorni cominciavano a tirare fuori prestazioni interessanti, sospinte da una passione attorno all’auto popolare che in Europa era probabilmente in calo da tempo.


Grazie ai leggendari elaboratori giapponesi, capaci di modifiche per l’epoca incredibili per resto del mondo, la meccanica delle auto trovò nuovi limiti. Le sportive giapponesi di grande tiratura raggiunsero prestazioni con cui riuscivano a impensierire le ormai grandi e goffe supercar europee.


E’ in questo preciso momento che i “tuner” cominciano a vedere la loro reputazione crescere al di fuori dei confini regionali.


L’approccio giapponese tutto funzionale e poco formale sconfisse quello del Bel Paese, basato sulle sensazioni di guida e non sulla prestazione pura.


Senza contare la situazione economica diversa, che permetteva ad alcuni costruttori di produrre auto di nicchia ad elevate prestazioni e di venderle a costi abbordabili (bolla economica asiatica), e ad altri impediva di investire troppe risorse in un segmento dove l’apparenza contava più della prestazione (crisi petrolifera).



 


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Tra gli elaboratori c’era chi preparava auto da record di velocità, chi per la pista, e c’era chi le modificava sia meccanicamente che esteticamente, con l’intento di creare auto uniche da godersi sia per strada che in pista.


Molti tentavano un’avventura del primo o del secondo tipo, ma pochi intrapresero la strada di elaboratore-costruttore, cioè di omologare auto modificate, dovendo creare quindi prodotti validi a tutto tondo sia nell’uso quotidiano che in quello sportivo.


Oggi vi parlerò di uno di questi ultimi.


Le persone chiave di questo elaboratore sono due: Yoshikazu Tomita e Kikuo Kaira. Se sei cresciuto con i videogiochi di auto, con un po' di immaginazione potresti aver già capito il nome del marchio partendo dai due cognomi: Tommy kaira.


Tomita era un importatore di auto esotiche che, dopo una rapida apparizione nel motocross dove divenne amico di Matsuhisa Kojima, iniziò a vendere auto nella sua Kyoto all'età di vent'anni, diventando in seguito uno dei principali fautori della cultura giapponese per le supercar e le auto italiane negli anni '80. Nel 1968 fondò la sua prima attività: la Tomita Auto Inc, successivamente rinominata in Tomita Auto Co. Ltd. nel 1973.


Alcuni anni dopo volò in Italia per comprare tre Miura e cinque Dino 246, senza conoscere né l'italiano né l'inglese, insieme a un designer giapponese (Enrico Yamazaki di Fendi) che fu la sua "Beatrice" nel Paradiso dell'auto sportiva che è il Bel Paese. Importò anche un Cobra Daytona e un Miura SVJ non ufficiale (# 4892). In seguito si è dedicato alle corse automobilistiche, prima come manager del team Hayashi Racing sponsorizzato da Turbo-Hayate nel 1982, con Hitoshi Ogawa come pilota e Hayashi 320 come auto, in seguito come team principal del team Auto Beurex in JTC, con la Hartge 635 CSI che vinse il campionato nel 1985.


Kaira iniziò la sua carriera nel motorsport sia come meccanico, sia come pilota quando ne aveva occasione. Contribuì alla progettazione e corse con le RQ (Racing Quarterly, in seguito Nova Engineering) Augusta Mk1 e Mk2 che gareggiavano nella All-Japan Formula Junior 360, un campionato JAF per piccole monoposto equipaggiate con motori due tempi da 360 cc, successivamente aperta a motori a 500 cc. In seguito fece parte del team di progettazione della Macransa Panic (la prima vettura di formula del Minoru Hayashi di Dome); della Esso Uniflo FJ1300 e della Nova Engineering 02 (nel 1974). Il soldi non erano abbastanza, quindi, dopo alcuni risultati incoraggianti in All Japan F2, smise di correre e contribuì come ingegnere e designer per alcuni progetti: la March 752 guidata da Walkinshaw nell'europeo F3, la March 792 BMW di Kaazuyoshi Hoshino, la famosa Kojima KE007, la Kohima KE008, La Royce RM-1 (auto da Grand Champion basata sulla March 792 BMW) che conquistò 8 podi e 6 pole, e le Toyota 83C e 84C, progettate quando fu incaricato come capo progettista telaio da Dome Co. Ltd. nel 1983.



 
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